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Certi maori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano – La recensione di Housebound

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Adesso potete chiedermi qual è la mia teoria sul cinema neozelandese di genere.
La mia teoria sul cinema neozelandese di genere – questa teoria che io ho e in quanto tale è di mia proprietà – è mia.
Questa teoria, che appartiene a me, afferma quanto segue.
Bene.
La prossima cosa che scriverò sarà la mia teoria sul cinema neozelandese di genere.
Teoria sul cinema neozelandese di genere, di Luotto Preminger, aperta parentesi Dottore chiusa parentesi.
Eccola qui:
il cinema neozelandese di genere è molto sottile a un’estremità, poi molto, MOLTO più grande al centro, quindi di nuovo sottile all’estremità opposta.
Questa è la teoria che io ho e che è mia, ivi incluso ciò che afferma.

maoriwarrior

Mi spiego meglio:
per come lo conosco io, il cinema neozelandese di genere inizia piccolo, inventivo, maligno e ricco di sangue grazie a Peter Jackson. In questa prima fase a basso budget non c’è soluzione di continuità tra horror e commedia, ci si diverte, ci si spaventa, le budella escono con gran copia di sangue, i fantasmi interagiscono con i vivi in modi stravaganti, si ridacchia sempre sotto i baffi. Poi, all’espandersi della carriera di Jackson – inversamente proporzionale al suo girovita – inizia quella fase centrale MOLTO, MOLTO più grande, in cui succede di tutto: torme di gente che si veste da elfo, la Air New Zealand che inizia a dipingere draghi sulle fusoliere, turisti che si sobbarcano 24 ore di volo per andare a vedere le case degli hobbit e, in generale, un inedito processo in base al quale, nell’immaginario collettivo boreale, un’intera nazione arriva a identificarsi con tre film di merda che vi sono stati girati. Io, personalmente, una bella voglia di andare a visitare la Nuova Zelanda ce l’ho sempre avuta (come tutti, del resto), ma atterrito dal fenomeno del Tolkien tourism ho lasciato perdere, sapendo che il trend prima o poi sarebbe scemato e che di lì a qualche anno i turisti sarebbero tornati a visitare la Nuova Zelanda non già per vedere il bidè di Elijah Wood ma per dedicarsi alle normali attività da normali turisti: disturbare i pinguini e cercare di scoparsi un maori. Non avevo torto: bastava aspettare un po’. Inizia così la fase discendente, ma con un twist inaspettato: il principale fautore del declino è la stessa persona che era stata artefice dell’ascesa, e per di più NELLO STESSO MODO IDENTICO. Tre filmoni epici di nani smarmellati per salire, tre filmoni epici di nani smarmellati per scendere. Sintonizzatevi per un attimo sul nostro immaginario collettivo: lo sentite questo rumore? È lo Hobbit che, in questo preciso momento, sta operando un processo senza precedenti di rimozione generale di tutto quanto fa Tolkien, Nuova Zelanda e Cate Blanchett eterea. Via libera al turismo normale, controlliamo pure il prezzo dei voli: non dovrebbero esserci più draghi disegnati sugli aerei.
Terra bruciata, quindi. Potete piantare nuovi semi, amici degli antipodi! Potete rifiorire senza lo spettro del vostro più ingombrante connazionale! Potete fare film dove, ALLELUJA, le porte sono rettangolari come quelle della gente normale! Respirate a pieni polmoni! È tornato il sereno! Tu, per esempio, giovane regista di nome Gerard Johnstone, che cosa ci proponi?
Come dici?
Un’horror comedy alla Peter Jackson?
Ah.

Ah.

Ah.

Housebound, signore e signori.
Ricordate la mia teoria? Ecco, ora siamo giunti all’estremità opposta, la nuova estremità sottile – quella che, passata l’indigestione, poteva andare da qualunque altra parte e avere qualunque altra forma e invece è tornata esattamente dov’era prima e com’era prima, oltretutto con la faccia impassibile di chi pensa di passarla liscia.
«Non essere così intransigente», direte voi. «Dopotutto è la scuola neozelandese. Loro sono bravi a fare queste cose. Non c’è mica solo Jackson! Ti ricordi di Black Sheep? Lo sai che uno dei due produttori di The ABCs of Death è neozelandese?».
Allora, innanzitutto, prima di rispondervi è buona norma raccontare la trama.

La giovane e ribelle Kylie rapina un bancomat e viene condannata agli arresti domiciliari a casa di sua mamma. Fonte di divertenti discordie è la convivenza forzata tra quella testa calda della figlia e la mamma tutta casa, chiesa e accento bislacco! Ma attenzione: la casa è infestata! Rumori notturni, oscure presenze? Immaginazione o realtà? HA! Non ve lo dico! Con l’aiuto di un opportunamente coglione agente penitenziario, Kylie scoprirà i misteri della casa, non senza aver snocciolato sapidi dialoghi con la madre e provocato adeguati spargimenti di sangue. E come se non bastasse, guardate che bella locandina. Sul serio, probabilmente è la mia cosa preferita di tutto il film:

housebound-poster_667x1000

Carina, no? Se non vi piace questa, tranquilli che non vi piace nemmeno il film.
Comunque, dov’eravamo rimasti? Ah, sì: mi stavate accusando di eccessiva intransigenza verso un film moderatamente divertente. «È la scuola neozelandese», dicevate.
Sì, per carità. Non voglio farvi arrabbiare, difensori di Housebound. Avete le vostre ragioni: la fusione di horror soprannaturale, gore e commedia è sviluppata in maniera prevedibile ma sempre apprezzata, i colpetti di scena pescano sempre nel barile del già visto ma rendono la visione non troppo noiosa, l’accento neozelandese della madre è buffo, certi duetti tra figlia e patrigno non sono disprezzabili. E questi, badate bene, sono i pregi. Questo è il massimo entusiasmo di cui sono capace. Housebound non sconfina mai, neanche per sbaglio, oltre l’ambito del “simpatico” – ed è grazie alla sua simpatia che perdoni una confezione non esattamente professionale, dei dialoghi scherzosi ma mai davvero divertenti, e la convinzione ingenua che basti inquadrare un volto dal basso per fare subito deformazione grottesca e commedia nera.
Tu ripeti: «Ma è la scuola neozelandese».
Io ti rispondo: va bene, però vedi, anche se sei neozelandese, non è che te lo ordina il dottore di girare l’horror comedy. Io sono toscano, ma mica il sindaco mi obbliga a invetriare la terracotta e decorarci un portico rinascimentale. Qui Johnstone unisce tutti i punti fermi del filone e ottiene un disegnino che ha diverse reminiscenze del Jackson di Sospesi nel tempo e un po’ del gusto grottesco-splatter dei suoi film precedenti, ma senza un briciolo della loro forza anarchica. Questo per evitare che leggiate “Peter Jackson” e vi fiondiate a guardare Housebound aspettandovi di trovarci Bad taste.
Che poi oh, scusate se in questo post ho scritto dodici volte il nome di Peter Jackson e due sole volte il nome del vero regista. Però davvero Housebound gli stereotipi se li va a cercare col lanternino uno per uno – ed è curioso, perché da un lato arriva talmente fuori tempo massimo che la memoria del modelli è lontana, forse persino ignota ai ventenni di oggi; ma dall’altro vive pigramente di rendita come un ristorante in Piazza del Campo: puoi limitarti a propinare tre-quattro standard appena mangiabili della cucina italiana, tanto ai turisti basta il panorama.
Ecco, sì: Housebound è un ristorante turistico con vista sul Peter Jackson dei primi anni Novanta.

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A proposito di DVD-quote, avete notato di chi è la quote sulla locandina del film? Ovviamente di Peter Jackson, anzi: di SIR Peter Jackson, MA VAI A LAVARE I VETRI, VAI. I blurb di Sir Peter Jackson sono i nuovi “Quentin Tarantino presenta un altro film di fregna e arti marziali”, con risultati non troppo diversi.

DVD-quote suggerita:

Va bene la scuola neozelandese, ma qui siamo abbondantemente fuori corso.
(Sir Luotto Preminger, i400calci.sir)

>> IMDb | Trailer

 


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